Gli sforzi locali per salvare le barriere coralline sono destinati a fallire?

Durante le ultime sei settimane, gli scienziati hanno pubblicato due principali report sulla resilienza dei reef corallini che sembrano contraddirsi a vicenda.

Il primo “Bright spots among the world’s coral reefs”, eseguito da 39 scienziati condotti dal Professor Josh Cinner, della James Cook University in Australia, ha utilizzato dati provenienti da 6000 indagini in reef di tutto il mondo. Cinner et al hanno concluso che i reef che erano gestiti in modo sostenibile avevano una probabilità maggiore di sopportare impatti di bleaching correlati al riscaldamento globale, o a eventi climatici periodici come El Niño.

Il secondo invece suggerisce che i reef corallini, in isole remote, non soggetti a impatti antropici, come eccesso di pesca o inquinamento, non erano in condizioni migliori di quelli vicino ad aree popolate e che la gestione degli ecosistemi non produceva alcuna differenza concreta per la salute complessiva dei reef.

Quindi, chi ha ragione?

“Coral reef degradation is not correlated with local human population density”, lo studio del professor John Bruno e del co-autore Abel Valdivia della University of North Carolina è stato pubblicato il 20 luglio scorso. Esso suggerisce che, contrariamente alla opinione scientifica prevalente, la pressione locale non agisce in modo sincrono con gli stress globali (soprattutto il riscaldamento globale) e che il suo impatto sui reef è insignificante. Secondo Valdivia ”Le ampie discussioni sul fatto che la degradazione dei reef è per lo più causata da fattori locali sono prive di supporto. Il problema è meglio descritto da impatti globali come i cambiamenti climatici”.

Tutto ciò è controverso perché mette in discussione l’efficacia delle attuali strategie di conservazione marina che tentano di mitigare gli impatti umani, e la “tesi diffusa che i reef controllati dall’uomo possono essere resi più resilienti agli stress gobali”.

Secondo J.Bruno autore e leader del report il messaggio principale è semplice, esso “illustra gli effetti di vasta portata del riscaldamento globale e la necessità immediata di tagli drastici e prolungati alle emissioni di anidride carbonica per aiutare a riportare in salute i reef corallini.

Il primo report –pubblicato a giugno – identificava 35 “punti oscuri”, dove i reef corallini erano sottoposti a maggior degrado, e 15 “punti luminosi” che, se non fiorenti, certamente se le passavano meglio della maggior parte. Molti di questi “punti luminosi” si trovano nel Triangolo dei coralli, in paesi come l’Indonesia, le Isole Solomon e la Papua Nuova Guinea.

Come Bruno & Valdivia, Cinner et al hanno trovato che i reef in località remote non necessariamente stavano meglio di quelli vicini ad alte densità di popolazione. Quello che però essi hanno scoperto è che i “punti luminosi” tendono ad essere in località dove le comunità locali hanno sistemi ancestrali di gestione dei reef che proteggono le zone di pesca da parte di estranei (come la West Papua nell’Indonesia orientale e alcuni paesi del Pacifico). Il lavoro ha rilevato che lungi da uno sfruttamento eccessivo dei loro reef, queste comunità si comportavano da custodi.

Il report conclude “I punti lumiosi sono caratterizzati da forti istituzioni socio-culturali, come rituali tabù e utilizzo del mare, alti livelli di coinvolgimento locale nella gestione, alta dipendenza dalle risorse marine e condizioni ambientali favorevoli come rifugi in acque profonde”.

Le evidenti contraddizioni qui sono parzialmente dovute ai singoli report che analizzano tipi di dati diversi.

Secondo Bruno “il lavoro di Cinner et al. riguarda pattern di distribuzione spaziale delle popolazioni di pesci mentre noi abbiamo indagato su come la copertura algale e corallina erano correlate alla densità di popolazione umana”.

Detto in maniera semplice uno studio riguardava i pesci, l’altro la copertura corallina.

Eppure la questione rimane: la gestione locale del tipo evidenziato da Cinner et al. sta avendo un reale impatto sulla salute degli ecosistemi dei reef?

Dice Bruno, “Sebbene io ne dubiti, la maggior parte dei “punti luminosi” sono luminosi per merito della gestione locale, sono d’accordo che..dovremmo continuare a mettere tutti i soldi destinati alla conservazione su di essa per mantener i reef così, il più a lungo possibile.”

Il problema è su come interpretare i singoli report.

Cinner et al. implica che un management sostenibile significa reef in salute – anche se sono sfruttati dalle popolazioni locali. Un messaggio positivo per i conservazionisti ed i programmi locali che essi sostengono.

Il punto di Bruno sembra invece essere che tutto ciò è accademico di fronte ai cambiamenti climatici, cullandoci in un pericoloso e del tutto ingiustificabile senso di sicurezza. Se non riusciamo a ridurre drasticamente il volume di CO2 che entra in atmosfera, i reef corallini in tutto il mondo sbiancheranno e moriranno, per quanto essi vengano ben gestiti.

Ma mentre Bruno & Valdivia esprimono le loro tesi con molta attenzione, è possibile che politici zenza scrupoli possano sfruttare prontamente i loro studi per giustificare un continuo sfruttamento delle risorse marine, sostenendo che non vi è alcuna differenza in uno scenario più grande.

Il professor Avigdor Abelson della Tel Aviv University, che lavora sull’ecologia del recupero come la costruzione di reef artificiali, teme che ciò ”possa portare a conseguenze indesiderate come un’accelerazione del degrado dei reef.

Entrambi i report sono corretti. Il pericolo è che essi possano essere fraintesi.

 

 

Materiali adattati da: https://www.theguardian.com/environment/the-coral-triangle/2016/aug/02/are-local-efforts-to-save-coral-reefs-bound-to-fail

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